venerdì 9 febbraio 2007

La maledizione dei pionieri

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A volte ripenso a Renato Pozzetto. Non capita spesso, certo. Ma sono un consumatore di commedie. In teatro assisto a spettacoli comici, in televisione Zelig mi rapisce per la sua capacità di penetrare all’interno delle sensibilità e scardinare gli schemi, sebbene non riesca a sopportare il tormentone “a oltranza”. Sempre più spesso i comici, trasfigurando il piano del simbolico, ci investono con la loro carica semiotica, mostrandoci i veri non-sense del Palazzo. D’altronde la satira cos’è se non la continua antitesi del potere

Mi chiedo come facciano. Far ridere è complicato. E’ una questione seria, che va affrontata scientificamente. Sono sempre di meno gli attori che recitano “a braccio”, probabilmente perché c’è poco ancora da mettere in scena. La Tv è un medium che pone dei limiti. L’arte che vi si può sviluppare è limitata al contesto tecnologico in cui si inserisce, ai gusti del pubblico e alle regole del linguaggio. Ma il linguaggio è soggetto a infinite interpretazioni, ed è proprio qui che entra in scena il comico. Cos’è la comicità? Un non detto, una non-esecuzione di ciò che si pretendeva di eseguire, un non luogo, l’avvertimento del contrario. Mica roba semplice.

Renato Pozzetto, dicevo. Negli anni settanta e settanta il duo
Cochi-Renato dominava la scena televisiva italiana. Negli anni ottanta Pozzetto si è addirittura rivelato un attore cinematografico di discreto successo. Era divertente. Ricordo benissimo che nel corso della mia infanzia la mia ansia di vedere “Il ragazzo di campagna” era eguagliata soltanto dalla voglia di giocare a “Kick Off 2” sul mio vecchio Amiga.
Oggi ho 30 anni. Sono cresciuto. Crescere significa tornare nei luoghi dell’infanzia e rendersi conto di quanto li senti diversi. Guardare Renato Pozzetto in Tv (ma per certi versi il discorso vale anche per Massimo Boldi) ha su di me lo stesso effetto di regressione e di consapevolezza. Il dubbio è che non riesco a capire se l’effetto sia dovuto alla mia evidente diversità o ad una incapacità dell’attore di rinnovarsi . Persino Max Pezzali, ex 883, sta investendo su un cambio di immagine. Madonna ne è la regina. Questi personaggi inventano di continuo delle varianti dello stesso tema, in modo tale da lasciare una certa coerenza al proprio nucleo identificativo. Sembra che si rinnovino incessantemente, ma è solo un’illusione.
L’innovazione radicale in realtà devasta il vecchio ordine sensoriale[1]. E’ un “big bang”. Modifica la struttura stessa della nostra percezione avendo un impatto su tutti gli altri settori dell’esperibile. L’autore è anche percettore, per un certo periodo, di un naturale “monopolio dell’innovatore”.

Renato Pozzetto, oggi, non mi diverte più perché non è riuscito a reinventarsi. Il suo umorismo è datato. Era sulla cresta dell’onda negli anni sessanta. Pozzetto è stato un pioniere. Su di lui, molti altri comici hanno tratto spunto e “rubato” il mestiere. L’hanno attualizzato. Hanno usato il suo stile, le sue gag, le sue intuizioni comiche come le “canzoni intelligenti”. Ma inventare un’arte non significa esserne maestri incontrastati per sempre. Basti guardare gli inglesi nel calcio. Hanno vissuto un momento di gloria, hanno vinto un mondiale (peraltro discutibile) e hanno conquistato diversi trofei continentali a livello di club. Ma i campioni sono altri. Pozzetto è come un cow-boy. Lui ha iniziato un genere, l’altro ha colonizzato una nazione. Entrambi oggi appaiono anacronistici agli occhi di chi, in quella “nazione” è vissuto.

[1] L’invenzione moderata si ha quando si proietta direttamente da una rappresentazione percettiva in un continuum espressivo, realizzando una forma dell’espressione che detta le regole di produzione dell’unità di contenuto equivalente. Il destinatario deve procedere all’indietro per inferire ed estrapolare le regole di similitudine implicate e ricostruire il percetto originario. Si tratta in realtà di un discorso. Quello che è un bruto continuum organizzato percettivamente dall’artista, a poco a poco, si fa organizzazione culturale del mondo.
Con l’invenzione radicale, invece, il mittente “scavalca” il modello percettivo e “scava” direttamente nel continuum informe, configurando il percetto nello stesso momento in cui lo trasforma in espressione. In questo caso la trasformazione, l’espressione realizzata, appare come un “artificio stenografico” attraverso cui il mittente fissa i risultati del suo lavoro percettivo, ed è solo dopo aver realizzato l’espressione fisica che anche la percezione assume una forma e dal modello percettivo si può passare alla rappresentazione sememica. Tale è per esempio il principio secondo cui si sono avute tutte le grandi innovazioni della storia dell’arte. In questo caso si ha violenta istituzione di codice, radicale proposta di nuova convenzione. La funzione segnica non esiste ancora, né si può imporla. Di fatto il mittente scommette sulle possibilità della semiosi e di solito perde. Talora ci vogliono secoli perché la scommessa renda e la convenzione si instauri. Umberto Eco, Trattato di semiotica generale, 1975. Da Ugo Volli, Il libro della comunicazione, 1994.

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